Tricolore, non c’è niente da festeggiare. Altro che Cispadana!

In questi giorni passeggiando per Reggio Emilia si vedono ancora parecchi cartelloni che annunciano, con una grafica severa e sobriamente colorata, la “festa della bandiera” o “del tricolore”, a seconda. In tutta la città, l’unica voce fuori dal coro, a dire che non c’è proprio niente da festeggiare o celebrare, è stata quella della Federazione Anarchica Reggiana.

Intanto il 7 gennaio la festa c’è stata, con l’alta presenza istituzionale di un ministro di seconda linea – ministro dei rapporti col parlamento, figuriamoci! Ma del resto, la città è governata dal PD, e non valeva la pena mandare qualcunƏ di veramente importante.

Il tutto si è concretizzato in qualche tirata retorica, vuota ufficialità, discorsi patriottici del sindaco, del presidente della Regione in corsa per il segretariato e del ministro, seguiti dagli onori militari resi allo stesso ministro da una soldataglia mista di esercito, marina e aviazione (combattenti di terra, di mare, dell’aria…) e alla fine la fanfara dei caramba a coronare il tutto.

Ma perché ministri e presidenti vengono ogni anno a Reggio per queste vuote celebrazioni? Perché Reggio Emilia è la città del tricolore. Almeno è quello che ti dicono, fin dalle scuole elementari. In quarta o quinta, oltre che ai musei civici, ti portano in visita alla sala del tricolore, il cuore del municipio di Reggio. Un bel posto tutto sommato, con diversi ordini di palchi, proprio come un teatro. E infatti ci si riunisce il consiglio comunale. In sala del tricolore si celebrano anche i matrimoni civili, e in quei casi l’aria di festa è forse più comprensibile. Ma quando ti ci portano in visita scolastica tu, bimbettƏ sui dieci anni, sei un pochino oppressƏ da tutta quella solennità storica, anche perché nei giorni precedenti ti sei dovutƏ sorbire tutta una serie di lezioni su come proprio lì in quella sala si erano riuniti nel millesettecento e rotti -quasi milleotto- i rappresentanti di quelle città d’Emilia che sulla spinta della campagna napoleonica avevano cacciato a pedate i vari duchi, fondato la Repubblica Cispadana e fra le altre cose avevano adottato il primo tricolore come bandiera di detta repubblica. Certo, cacciare i duchi è sempre opera meritevole, ma poi le città della Cispadana sono finite in tasca a Napoleone, e su questo, chissà perché, le lezioni non si soffermano mai molto.

Sempre in quella sala, una riproduzione del primo tricolore viene di solito regalata daƏ sindacƏ alle personalità in visita a Reggio, come dignitarƏ stranierƏ, sportivƏ medagliatƏ, altƏ burocratƏ della UE e una volta anche un astronauta. Se sei davvero qualcuno e passi per Reggio, non la scampi di certo. Ti portano lì, alla presenza di giornali e tv locali, e Ə sindacƏ ti stringe la mano e ti consegna una copia della settecentesca bandiera Cispadana, che appenderai fierƏ alle pareti di casa o alle paratie dello shuttle.

Tutto questo per dire del primo tricolore, della maniera molto edulcorata e quasi innocua con la quale viene somministrata a bambinƏ e adultƏ qui a Reggio, e che fa parte della retorica celebrativa costruita intorno alla bandiera. Perché poi le cose non si fermano a queste robette folkloristiche ma vanno ben oltre.

Sappiamo che nei fatti la bandiera tricolore non è solo uno stemma che designa lo stato italiano, e questo sarebbe già abbastanza per starne alla larga, ma è un simbolo e un veicolo di propaganda nazionalista, di identità nazionale e di retorica patriottica. Quella retorica che lo stato spande a piene mani quando si appresta a far soffrire un bel po’ di persone, dentro e fuori i sacri confini.

Sappiamo che è molto amata dai fascisti: non è un caso che si trovi sempre il tricolore appiccicato ai loro giubbotti neri, lo si veda sventolare nelle loro manifestazioni, nudo oppure ornato di croci celtiche, a far da contrappunto alle braccia alzate nel saluto romano. Che lo si trovi nelle mani di quei cialtroni che berciano di foibe e genocidio degli italiani, proponendo senza vergogna un parallelo con gli stermini nazisti. E di nuovo non è un caso che lo si sia visto poco tempo fa nelle piazze e nei cortei che inneggiavano alla “libertà” contro un certo tipo di “dittatura” Solo quel tipo, mi raccomando. E fu proprio la presenza massiccia di quella bandiera a far capire a quasi tuttƏ noi da che parte pendevano quelle piazze, e proprio per questo a farcene stare lontanƏ e continuare a modo nostro, da anarchicƏ, le lotte contro tutti i governi e tutti i poteri.

Ma questo è ancora il meno, questioni interne quasi da poco: nella prima metà del secolo scorso il tricolore ha annunciato in Libia, in Africa Orientale, in Unione Sovietica, in Jugoslavia, che l’esercito invasore veniva dall’Italia. Che quelli che ti sparavano addosso, ti ammazzavano, ti affamavano e ti violentavano lo facevano in nome dell’Italia. Più di recente il tricolore sventola, almeno da tre decenni, alla testa dei ben pagati militari italiani impegnati nelle missioni militari in giro per il pianeta, applicato sulle loro divise, sui loro blindati, sotto le ali dei bombardieri. Dalla Somalia negli anni ‘90, all’Afghanistan e Iraq dai primi 2000, nelle missioni che allora si chiamavano di “polizia internazionale” o di “guerra al terrorismo”, ma che si sono limitate a portare morte, devastazione e violenze alle popolazioni e ai territori per gli interessi geopolitici di una parte dell’occidente.

E ancora adesso, per le persone che vivono negli oltre quaranta teatri di operazioni delle missioni militari italiane contemporanee, per gli abitanti del delta del Niger devastato dall’ENI, per Ə migranti che vengono intercettatƏ dai militari italiani in Africa, il tricolore celebrato a Reggio il 7 gennaio è un simbolo di morte.

Ecco perché la FAI reggiana ha decisamente preso posizione -da sola- contro questa ennesima celebrazione patriottica e nazionalista, utile soltanto a diffondere culture militariste e autoritarie, propedeutiche e funzionali al sostegno di tutte le guerre in corso, e che non si curano minimamente delle vittime, a meno che non siano del colore e della religione giusta. Una celebrazione avallata da tutti gli schieramenti della politica istituzionale, compreso il pd naturalmente, e compresi i pentastellati, che quando sono stati al governo hanno aumentato le spese militari per ben cinque volte. Una celebrazione non osteggiata nemmeno dalla stragrande maggioranza delle sigle “alternative” o “di movimento”. Negli anni scorsi, qualche sigla scendeva in piazza per contestare questƏ o quelƏ ministrƏ o presidente, ma mai per prendere posizione direttamente e specificamente contro le celebrazioni del tricolore.

Spiace constatare che ultimamente anche una larga fetta del movimento pacifista condivida nei fatti le stesse culture militariste e autoritarie, e che abbia abbandonato il pacifismo integrale scivolando in una deriva che definire ambigua è poco. E oggi, in questi tempi di guerra, non ci possono essere ambiguità davanti all’attitudine guerrafondaia dei governi italiani. Servono parole chiare e posizioni coerenti.

Per questo come FAI Reggiana abbiamo di nuovo ritenuto necessario condannare senza appello questo evento patriottico e tutta la retorica connessa, più o meno edulcorata, ribadendo il nostro antimilitarismo internazionalista che non contempla né patrie, né nazioni, né spese militari, né eserciti. Per questo abbiamo invitato Ə concittadinƏ a disertare non solo le guerre ma anche i nazionalismi e le bandiere che li rappresentano. Altro che la Cispadana!

J. Scaltriti

 

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